The GAIA Project – Synth Pad?

Written by Enrico Cosimi on . Posted in Tutorial

Cosa c’è sotto alla linea melodica? Cosa tiene insieme – come un vero e proprio collante sonoro – la ritmica, il solista e le parti di contorno? La risposta, specie nella produzione musicale in forma song, è una sola: il pad. Dietro questo termine si cela un’intera famiglia timbrica che ha caratteristiche ricorrenti: scarso ingombro armonico, facilità d’inserimento nel mixaggio, assenza di picchi ritmico/dinamici tali che possano distogliere l’attenzione dal protagonista principale dell’arrangiamento. In poche parole: un suono che si nota solo quando è finito…

di Enrico Cosimi

Volendo generalizzare, il pad perfetto è proprio quello che si nota meno, che non da fastidio in alcun modo; ovvio che, se si esagera con la definizione di “non dare fastidio”, si finisce per atterrare sulle onde sinusoidi – ritenute, a torto o a ragione, le meno intrusive – ma qui si cela uno dei tanti pericoli del pad: le sinusoidi pure, specie se eseguite per pallettoni, cioè per note lunghe, diventano rapidamente insostenibili per l’orecchio… la loro estrema staticità mette a dura prova l’orecchio e l’interesse dell’ascoltatore. Meglio, a quel punto, innescare un qualche regime di micro variazione che possa tenere più viva l’attenzione. In questa sessione, ci occuperemo della parte teorica, per poi – la prossima volta – scendere sulla terra e verificare con mano la fattibilità delle varie opzioni di programmazione.

Cosa non è un pad…

Ricordate Jump dei Van Halen? Quel modo di accompagnare sul sintetizzatore, per accordi fin troppo protagonisti, non è un pad troppo protagonismo, troppe frequenze, troppo fraseggio, troppo di tutto per passare inosservati. A prescendere dall’inossidabile bellezza del brano, che è uno dei classici rock Anni 80, quel gioco di tastiere deve essere dimenticato se si vuole pensare al pad perfetto.

Rimettiamo nella busta il vinile e ricorriamo ad un altro ricordo: le cose vanno molto meglio con In the air tonight di Phil Collins. Questa volta, le condizioni per parlare di pad ci sono tutte: contenuto armonico assai discreto, presenza che – nel mix finale – si nota e non si nota (ma quando esce, il brano sembra cadere per terra…), articolazione d’inviluppo che ha molte cose in comune con il classico suono da synth organ.

Dopo esserci asciugati gli occhioni, è il momento di fare il punto della situazione.

 

Pad: segni particolari

C’è una serie di caratteristiche che fanno il pad perfetto (più o meno):

  • contenuto armonico ridotto, poco invasivo; se non sono onde sinusoidi (troppo statiche), sono quantomento onde denti di sega pesantemente filtrate low pass;
  • micro modulazioni che rendono il suono meno fermo del dovuto; si può usare una lenta pulse width modulation ai danni di un’onda quadra o, più banalmente, si può ricorrere a un lento chorus esterno; in tutti i casi, è da evitare la ciclicità ricorrente della modulazione – interpretata e valutata in rapporto alla densità dell’intervento (una nota lunga quattro battute è più “nuda” di una che dura solo quattro quarti e che, nei suoi cambi armonici, maschererà più facilmente l’eventuale ripetività di slow modulation…);
  • inviluppo privo di eccessivi fronzoli o sprazzi di energia da protagonista; quindi: attacco poco invasivo (con tutte le variazioni contenute tra immediato e letargico), decay inesistente, sustain al massimo, release con una minima coda, per favorire l’esecuzione legata, senza eccessivi accavallamenti di note;

In aggiunta, ma è un altro paio di maniche, occorrerà calibrare la qualità/quantità delle note eseguite, spaziandole correttamente sulla tastiera, per non appesantire il mixaggio e per non mangiare tutto lo spettro armonico disponibile: cinque voci sono troppe, quattro voci possono essere troppe, tre voci ben distanziate possono risolvere parecchi problemi. A discrezione del musicista, si possono scegliere le posizioni di triade fondamentale  – con tutti i rischi d’impasto che ne conseguono – o posizioni late, in cui ogni voce ha più spazio di manovra.

Da non sottovalutare che la posizione lata, allargata insomma, tende a rendere importante anche l’accompagnamento più volenterosamente pensato come non ingombrante… insomma, per spaziare troppo le voci si finisce per tornare ad essere troppo ingombranti in mixaggio. Il classico philcollinsiano è portato avanti per terze minori e quinte, nulla di sperimentale e funziona… perbacco se funziona!!!

A questo punto, siamo pronti per la programmazione vera e propria.

 

Step by step… più o meno

Il primo passo nella programmazione è la definizione del corretto profilo d’inviluppo o, più realisticamente, del profilo d’ìnviluppo che meglio si adatta alle nostre esigenze contingenti. La struttura di base è sempre quella di default: un oscillatore, filtro e amplificatore, con una coppia d’inviluppi per la modulazione.

 

Prima l’inviluppo

Un timbro pad generico deve garantire consistenza di livello per tutta la durata delle note impegnate; ergo: deve avere livello di sustain sufficiente per durare; si può differenziare il comportamento di sustain tra gli inviluppi di filtro e amplificatore, ricordando che – a questo livello di programmazione – il sustain del filtro corrisponde a quanto quest’ultimo rimarrà aperto durante il segmento di staticità.

L’inviluppo più semplice del mondo è quello di tipo “rettangolare”, assimilabile alla normale tensione di gate, con un profilo grosso modo riconducibile al grafico qui sopra; da questo, si possono estrarre i valori da impostare nella classica struttura ADSR. Per avere un comportamento rettangolare, occorre mettere: attack a zero, decay a zero (ma qualsiasi altro valore andrebbe bene, visto che poi c’è…), sustain al massimo e release a zero.

Sicuramente, un inviluppo di questo tipo è più adatto alla produzione di timbriche in stile Hammond, che per fare pad un minimo evocativo; la chiave del successo è racchiusa nelle variazioni – tutte da sperimentare – sui tempi di attacco e di rilascio del suono, cioè sulle sue morbide e progressive entrate/uscite. In linguaggio più forbito, occorrerebbe passare dal comportamento di gate envelope a quello di trapezoid envelope di antica (analogica) memoria. Qui sopra, è riprodotto un generico comportamento “trapezoide” che dovrà essere personalizzato a seconda dei gusti e delle convenienze personali, agendo sui due tempi di attack e release.

 

Differenziare gli inviluppi

Per quanto limitato possa essere il nostro strumento, quasi sicuramente avrà due inviluppi indipendenti: uno sul filtro e l’altro sull’amplificatore. Quello sull’ampli definisce quanto a lungo e in che modo durerà la nota; quello sul filtro definisce con che timbro risulterà la nota. Detto ancora in maniera più semplice: se volte un attacco magico, seguito – a fine nota – da un impercettibile fade out, dovrete lavorare sui tempi del VCA Env e, parallelamente, dovrete allungare il release del Filter Env. Ad esempio, l’ingresso apparentemente impalpabile del sol minore che apre Shine on you crazy diamond è ottenuto con filter env tutto squadrato e amp env che lavora con un lunghissimo tempo di attack, successivamente aiutato in mixaggio.

Come ce ne accorgiamo? Semplice: prima che il flauto synth attacchi, il tappeto non cambia timbro, cioè il suo filtro non apre in alcun modo, ma invece il livello dell’accordo cambia con un lento fade in… ergo: filter env congelato e amp env accuratamente programmato su lenta apertura.

Traetene le giuste conseguenze e allenatevi a sperimentare con l’interazione tra i due inviluppi.

 

Contenuto armonico (ahi ahi ahi…)

E’ il momento delle scelte: un solo oscillatore “fermo”, glaciale, più o meno modificato nel suo contenuto armonico dal filtro di turno, oppure una coppia di oscillatori in lento battimento, oppure ancora un singolo oscillatore con onda impulsiva lentamente modulata nella sua simmetria attraverso il comportamento di PWM-Pulse Width Modulation. O, magari, tutte e due le cose insieme (doppio oscillatore e doppia PWM…); o magari, ancora, il tutto buttato dentro un bel chorus.

Non ci sono regole da privilegiare; caso per caso, dovrete scegliere in base al suono che avete in testa e alle possibilità timbriche native dello strumento che avete a disposizione. Sperimentate come rende il chorus di bordo, se è troppo ciclico nella sua modulazione (se diventa uno sgradevole ritornello dopo qualche battuta…), si può passare ad altro articolo. Parallelamente, se gli oscillatori (digitali) sono troppo ricchi di armoniche, può essere che, una volta sovrapposti in lento battimento, si arrivi ad uno sgradevole effetto di phaser… a quel punto, meglio filtrare e differenziare il più possibile le forme d’onda (digitali) generate dai due oscillatori.

In ogni modo, una volta arrivati ad un impasto timbrico che sia più o meno soddisfacente, siamo pronti per il filtraggio.

 

Filtering!

Adesso arrivano i guai! Fatte salve alcune condizioni “di base”, quando si tratta di filtrare un pad, può andare bene tutto e il contrario di tutto; la fantasia (come dicono i pubblicitari sleali…) è il vostro unico limite. Scendendo più con i piedi per terra, occorre non dimenticare che:

  • un low pass filter mezzo chiuso, o semplicemente poco chiuso, è un super controllo di tono con cui si può incupire qualsiasi timbro generato dagli oscillatori; ovviamente, se gli oscillatori tirano fuori sinusoidi o triangolari, ci sarà poco da filtrare e quindi il filtro low pass vi darà poche soddisfazioni; in tutti gli altri casi, il low pass può rendere “amniotico” il vostro ascolto eliminando le armoniche più acute. Frequenza di taglio, envelope amount e sustain level coesistono nella definizione della pasta timbrica desiderata;
  • un low pass filter può essere inesorabilmente cattivo, nei suoi 24 dB/Oct di attenuazione “moog style”, ma può anche essere più gentile e adatto alla produzione di setosi tappeti, se regolato su 12 dB/Oct di slope… provare per credere;
  • un band pass filter può servire per isolare una fascia centrale di frequenze, più o meno estesa, con cui coprire le esigenze armoniche del brano che deve essere realizzato; ancora una volta, lo slope selezionato gioca un ruolo centrale per enfatizzare la concentrazione o la maggior “apertura” timbrica della banda passante. Il compito più difficile sarà centrare la banda passante in rapporto alla tessitura prescelta e – non ultima – alla tonalità in cui è necessario lavorare;
  • un filtro high pass può conferire un sapore assolutamente elettronico al suono (specie se sotto energica modulazione di inviluppo e/o lfo…), e dovrà essere utilizzato con una certa cautela per le sue estreme caratteristiche di passaggio sulle acute. La sua azione di schiarimento sulle basse è benedetta nel caso di mixaggi particolarmente densi, ma occorre non sottovalutare il sovraccarico di acute che rimarranno intatte nel passaggio attraverso l’high pass. Da questo punto di vista, un buon passa banda potrebbe essere la soluzione migliore.

Buon lavoro.

 

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Comments (4)

  • Matteo Paiato

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    pur essendo un chitarraio adoro audiocentralmagazine!! questi tutorial mi stanno scatenando passione ancestrale e “repressa” per la musica elettronica e i synth e in particolare questa serie sul Gaia si sta per rivelare altamente pericolosa!!! ho messo da parte un po’ di soldi che fino a pochi giorni fa pensavo di usare per comprare una Yamaha silent ma dopo questo tutorial sui pad questo Gaia mi sta sempre piu’ simpatico. Secondo te e’ uno strumento adatto ad chi si vuole avvicinare a questo mondo?

    Reply

    • Enrico Cosimi

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      più passa il tempo, più mi convinco che GAIA, meglio se dotato del suo programma Editor, sia la scelta naturale per muovere i primi passi con il sintetizzatore… 😉

      Reply

  • Matteo Paiato

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    Ciao Enrico, ma di prodotti analoghi al Gaia nella stessa fascia di prezzo ce ne sono? grazie ancora per il lavoro formidabile di divulgazione che stai facendo!!!
    Matteo

    Reply

  • Enrico Cosimi

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    Ciao Matteo,
    sono contento che ACM ti piaccia; noi ce la stiamo mettendo tutta… :-)

    in alternativa al GAIA, io prenderei in esame il Novation UltraNova, che ha sempre le funzionalità di interfaccia audio/MIDI USB, ma in più ha vocoder incorporato.

    tieni presente che UltraNova ha un editor che lavora SOLO come plug-in, cioè non puoi aprirlo in modalità standalone e devi lavorarci da dentro cubase, o protools, o logic o altre cose del genere…
    da un punto di vista di pannello comandi, GAIA ha più immediatezza di accesso ai parametri, mentre UltraNova è più “concentrato” sull’editor a schermo…

    fammi sapere!!

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