Una chiacchierata con Marco Messina dei 99 Posse – Prima parte

Written by Attilio De Simone on . Posted in Events, Recording

Con oltre 20 anni di carriera alle spalle, Marco Messina ha accumulato un bagaglio di esperienza notevole e le sue considerazioni sulle tecnologie, sulla strumentazione, sul giusto approccio da avere sia per quel concerne il processo creativo sia per quel che concerne la professione del musicista potranno essere utili a tanti lettori, giovani e meno giovani.

Di Attilio De Simone

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Vista la notevole mole di informazioni ricevute in quel paio di ore che Marco Messina mi ha messo a disposizione nel suo studio, ho deciso di suddividere gli argomenti per fasce tematiche. In corsivo,  i miei commenti.

 

Musica e Computer

M.M.: Durante i live set elettronici lavoro con Ableton Live! gestendo suoni fatti da me, ma con Live! si perde la manualità e non sono contento di come suona il materiale. In studio, lo stesso file eseguito su Live! e su Pro Tools suona diversamente. Inoltre ancora non riesco ad adattarmi alla schermata arrange di Live!, ci sono cose che mancano e che per me sono indispensabili tipo il counter della song. La perdita di qualità è quasi impercettibile se si lavora solo sui campioni, ma se si iniziano a caricare vari plugin la differenza comincia a sentirsi e la qualità audio scende (a differenza di Pro Tools che invece carica i plugin su dsp dedicati).

In fase di pre produzione cerco di lavorare in the box, sul sequencer salvo tramite midi dump il suono dei synth hardware che uso per quel progetto, così posso sempre effettuare modifiche al suono stesso e aggiungendo o variando anche la catena effetti.

Sui mix in the box ho notato dei problemi di fondo: in analogico, banco mixer ed effetti colorano il suono, in the box il brano ha una qualità sonora dipendente della qualità dei convertitori utilizzati.

Di solito quando lavoro ai mix dei 99 Posse, faccio tutto in analogico e il computer mi serve solo per registrare. Durante il mixaggio faccio costantemente confronti tra il suono in uscita dal banco analogico e il suono registrato sul computer (uso una scheda Avid 192, cioè un prodotto di fascia alta, che offre una delle migliori qualità possibili) e la differenza è notevole. Il suono registrato su computer non raggiunge mai l’idea di suono che ho in testa lavorando al banco. Ad un certo punto ho deciso di fare un tentativo: ho passato il mix dal banco analogico al DAT Sony R500 e dal DAT sono entrato in digitale direttamente sul computer tramite le connessioni dedicate e nonostante il Sony lavori a 16 bit e non a 24, il suono è molto più fedele e vicino all’intenzione del mix rispetto alla catena mixer-computer.

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Inoltre ho notato che lo stesso campione se esce da un vecchio campionatore Akai conserva una dinamica che sul computer non riesco ad avere.

Nel mixaggio in the box, l’80% della musica che viene pubblicata è compressa con plugin molto noti, quasi sempre si usano i Waves. Questa cosa genera un appiattimento del suono dei brani che arrivano al pubblico. A volte provo imbarazzo sentendo brani di musica elettronica o hiphop che suonano puliti. In certi generi un po’ di sporcizia e di “ronza” non può che fare bene al risultato musicale finale. Quel poco di sporcizia dato da un Roland DEP5 mischiato all’hum di un vecchio pedale Electro Harmonix o a quel pò di diafonia generato da un banco mix analogico contribuisce a determinare il suono. Farò un esempio: per un periodo sono andato spesso a New York perché collaboravo con un’artista italoamericana (Costanza, nrd) e ho avuto la possibilità di assistere ad uno dei concerti rock che avrebbe dovuto essere tra i più attesi della mia vita, purtroppo si è rivelato uno dei più deludenti perché sul palco i musicisti avevano gli ear monitor e i tecnici lavoravano con banchi mixer digitali sia in sala che sul palco, il suono era asettico e c’era l’assenza totale di ronza. Non può esistere rock senza quel poco di sporcizia sonora che contribuisce a creare il suono di una band.

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Tornando al lavoro in studio, in fase di composizione i virtual instruments determinano un altro problema: quello dei preset. L’anno scorso ho preso Machine di Native Instruments perché mi piaceva lavorare creando i beat on the go. Ad un certo punto mi sono reso conto che già solo per selezionare una cassa perdevo troppo tempo, stavo ad ascoltare le centinaia di campioni delle librerie di Native Instruments e mi rendevo contro di perdere il filo, non ricordavo i campioni che mi erano piaciuti. Ad un certo punto ho eliminato tutti i samples di Machine (tranne qualcuno) e ho utilizzato in Machine le librerie di campioni che mi ero creato io nel corso degli anni. Ogni campione realizzato da me ha una storia propria, che io ricordo con precisione e che mi consente di sapere quali possibili abbinamenti cassa-rullante-charleston possono andare bene. E anche se per un brano una combinazione non va bene, ho già in mente le possibili alternative. Per anni ho lavorato con un suono di rullante creato con un doppio layer in cui sul suono al volume più alto avevo un rullante (che poteva essere sempre diverso) e al volume più basso avevo un sample di un rutto emesso per errore da un cantante, durante una registrazione in studio da me. Ripulendo la sua traccia mi sono accorto che quel rumore sembrava davvero un rullante, l’ho isolato e campionato per metterlo nella mia libreria. Quando i campioni sono i propri e sono frutto di un lavoro individuale, si è sicuri che il proprio suono sia unico perché il campione è preso da un disco o è frutto di una registrazione in un determinato contesto con determinati registratori e campionatori analogici che contribuiscono a determinare la pasta di quel suono. Inoltre è più veloce muoversi tra propri archivi di suoni, perché dietro un nome c’è la storia di quel campione e ci si riesce a ricordare del suono, del contesto in cui è avvenuto il campionamento e delle apparecchiature utilizzate per campionare. Quando lavoro con gli strumenti virtuali devo perdere troppo tempo per cercare un suono.

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Se lavoro con un sintetizzatore hardware per un progetto o un brano e creo un suono, non lo salvo mai come preset ma lo salvo via dump midi direttamente sul sequencer all’interno del progetto dove utilizzerò quel suono. In questo modo, non permetto alla pigrizia di sporcare il processo creativo. Se salvassi il suono tra i preset tenderei a riutilizzarlo anche su altri brani. Quando devo fare un basso, parto con uno Jupiter 8 della Roland, per esempio, ci inizio a lavorare e ottengo il suono. Se lavoro sui virtual insturments, inizio ad ascoltare i preset e non la finisco più.

Tra i synth virtuali mi piacciono quelli che consentono di fare cose che non si possono ottenere con gli hardware, come Reaktor o Max MSP. Non amo i cloni di strumenti reali. Chi dice che i cloni virtuali sono identici agli hardware mente, oppure ha problemi di udito o non conosce l’hardware, anche se basta ascoltare un vinile per avvertire la differenza tra un synth analogico e un virtuale. Basta sentire la musica elettronica degli anni ‘90 per capire la differenza sonora tra quello che veniva prodotto anni fa e la musica che viene realizzata oggi.

Inoltre, per me vale la seguente equazione:

smanettare su un synth virtuale : smanettare su un synth reale = sesso youporn: sesso reale.

Lavorare su un potenziomentro in tempo reale è più immediato che prendere il mouse e ordinare al computer di spostare un potenziometro virtuale. Inoltre ogni macchina analogica ha il suo suono.

Guarda caso, i gruppi attuali che seguo, andando a vedere, hanno in studio tecnologie del passato (come i Mode Selector). L’unico compositore che lavora in the box e che mi piace è Thomas Fehlmann, ma per il resto c’è un abisso sonoro tra chi lavora in analogico e chi usa solo il computer.

Il computer è il nemico della musica suonata, più si è diffuso il computer e più la musica suonata (rock, jazz, eccetera) è andata in crisi, come numeri, vendite e qualità della produzione. Questa cosa l’ho capita lavorando al progetto di Nino Bruno, chiamato “Nino Bruno e le 8 tracce” perché Nino lavora solo su un registratore 8 tracce analogico. Quando mi propose di mixare il suo disco, mi disse che avremmo lavorato solo con la sua tecnologia nel suo studio, e lui non possiede nulla che sia stato costruito dopo il 1982-83. Ho dovuto combattere per convincerlo a portare in fase di registrazione delle mie apparecchiature moderne (come i miei AKG414 e un channel strip Neve).

In un suo brano c’era bisogno di fare un insert (in passato quando su una registrazione c’era bisogno di correggere un errore di esecuzione o di modificare un passaggio, si doveva fare un insert su una traccia, cioè suonare sulla traccia, e per poterlo fare c’era bisogno di uno spazio vuoto prima del punto da sostituire, perché il registratore meccanicamente tende a partire sempre qualche istante prima…) perché c’era un piccolo errore di esecuzione, ma non c’era lo spazio sul nastro per realizzarlo, in quanto prima della parte da sostituire c’erano delle code dei riverberi. Tornando a casa ho riflettuto sul perché Nino Bruno fosse così estremista, sarebbe stato molto più semplice portare il materiale audio da me, passarlo su computer e effettuare tutte le modifiche del caso. Ad un certo punto ho compreso che aveva ragione lui. Ho ripensato a tutta la discografia che mi aveva formato musicalmente e mi sono ricordato di tutti quei piccoli errori che contenevano i brani ma che ciononostante conservavano momenti musicali bellissimi (come in un brano dei Soft Machine, in cui si ascolta un riverbero che frigge).

Nino Bruno è un musicista underground napoletano, attivo ormai dalla fine degli anni ‘80, che non è mai arrivato al mainstream, ma che ha un percorso musicale coerente apprezzato da molti ascoltatori, al punto da arrivare a vedersi commissionare un brano per la soundtrack del film di Paolo Sorrentino “This Must be the Place”. Effettivamente, ascoltando la musica di Nino Bruno si avverte una sonorità di diverso spessore e ciò rende i brani assolutamente unici e perfettamente distinguibili dal materiale musicale odierno, come se i brani provenissero da un decennio passato.

Il rock è stato penalizzato tantissimo dall’avvento del computer, perché le tracce che io definisco “tracce Frankenstein” non rappresentano le esecuzioni dei musicisti, ma sono frutto di editing. Posto che chitarristi, bassisti e batteristi sappiano fare correttamente il loro mestiere di chitarristi, bassisti e batteristi, spesso vengono cestinate tracce definite come fuori tempo, ma che in realtà potrebbero esprimere il groove del brano. Oggi si ascoltano dischi che contengono i difetti della musica elettronica senza averne i pregi e i difetti della musica suonata senza averne i pregi. Se devo editare e quantizzare una batteria suonata, perché devo perdere tempo a microfonare e registrare una batteria reale quando potrei ottenere lo stesso risultato realizzando un beat con un mio campionatore?

Molti musicisti inoltre non sanno più suonare un brano dall’inizio alla fine e questo è un problema dovuto al costo delle cose. In passato si arrivava in uno studio di registrazione al termine di un processo artistico frutto di mesi di lavoro comune in sala prove. Uno studio di registrazione tra noleggio del nastro e delle apprecchiature, tecnico, ecc. costava 500.000 lire al giorno, che non valevano 250 €. Si arrivava in studio già pronti, dopo aver suonato e ripetuto per mesi i brani. Oggi ci si presenta in studio essendo preparati sommariamente, i brani non si conoscono al 100% e l’errore diventa all’ordine del giorno e tra “non quantizzato” e “fuori tempo” il confine è labile, ma è sostanziale. Oggi si ascolta roba perfetta, tutta intonata, quantizzata, ma dov’è l’essere umano e dov’è finita l’essenza del rock?

Il consiglio che sento di dare è che bisogna prendersi il meglio del computer senza farsi coinvolgere al 100% e anche il meglio del mondo hardware. Bisogna sfatare il mito che la roba costa. Un esempio: dei ragazzi mi fecero sentire dei loro brani rock registrati nel loro home studio. La batteria suonava male, registrata con 10 microfoni scadenti, che andavano a confluire in 10 pre scadenti che confluivano in una scheda audio scadente, il tutto ripreso in una sala non insonorizzata. Io consigliai di ascoltare i suono di batteria dei led zeppelin registrati con 3 o massimo 4 microfoni, ma di altissima qualità, all’interno di studi con la migliore insonorizzazione possibile per l’epoca. Dopo un po’ di tempo questi ragazzi mi dissero che non notavano differenze sostanziali tra il sound dei Led Zeppelin e il loro sound. Alla fine venni a sapere che ascoltavano musica su youtube tramite i monitor dei computer. Il paradosso di questa società attuale è che spesso a casa si vede film in qualità hd su schermi cinematografici ma ascoltati da monitor di scarsa qualità. A quel punto, anche se un disco suona bene pure sulle casse di un computer, certe sfumature si perdono inevitabilmente ed effettuare un lavoro di ascolto per fare dei raffronti diventa praticamente impossibile.

 

Panorama musicale

Sul mercato, da anni escono tanti prodotti simili, c’è un abbassamento della qualità dei prodotti dovuto a svariati motivi. In passato per fare uscire un brano c’erano più filtri, un brano prima di arrivare al pubblico doveva passare la selezione di un’etichetta discografica. Oggi arrivano al pubblico migliaia di prodotti, spesso di scarsa qualità, in alcuni casi questi prodotti potrebbero contenere delle buone idee, ma spesso a mancare è l’esperienza e il risultato finale viene penalizzato. La democratizzazione del mix in the box ha dato la possibilità a chiunque di poter arrivare ad un prodotto finito lavorando in autonomia, ma in passato per mixare e masterizzare un brano bisognava andare in uno studio con il risultato che il brano finale suonava sempre meglio rispetto alla demo e questa esperienza in uno studio professionale aiutava i musicisti a crescere professionalmente. Tutto quello che ho imparato, oltre agli anni passati ad ascoltare musica e ad approfondire la conoscenza degli strumenti, lo devo alle esperienze fatte con produttori con più esperienza di me o con esperienze e competenze diverse dalle mie. Nel lavoro in studi professionali ho imparato che oltre alle tecnologie a disposizione, l’analogico determina un risultato che dipende dalla fantasia di chi utilizza quelle tecnologie. Mi è capitato di creare delle linee di basso su due sole note modulate da un phaser e da un riverbero e il tutto creava un groove particolare. Questi risultati sono possibili solo se si sviluppa un’attitudine alla sperimentazione e al lavoro contro corrente, che spesso il computer non può dare. Ormai veniamo da oltre un decennio di musica realizzata prevalentemente al computer e ognuno può fare dei raffronti tra quello che veniva prodotto in passato e quello che viene prodotto oggi.

Anche i contesti in cui fare musica sono cambiati molto, all’inizio degli anni 2000 c’erano tantissimi locali che proponevano musica elettronica. Attualmente il numero di locali che offrono musica elettronica dal vivo si è ridotto tantissimo, molti club preferiscono prendere i dj. In questo ci vedo una responsabilità indiretta anche dei musicisti in quanto la gente è abituata ad associare un suono ad un movimento. Se non c’è movimento l’attenzione del pubblico cala. Ci sono tanti musicisti di musica elettronica che non sono in grado di fare performance dal vivo.

Assistere ad un concerto di Murcof è stata una delusione per me: vedere un palco con una persona seduta che muove il mouse di un computer non è molto interessante. Ad un concerto o mi devono proporre musica che mi faccia ballare oppure, se la musica è da ascolto, devo vedere delle azioni sul palco, cercare di capire cosa fanno i musicisti. Altrimenti per me non è un evento musicale.

Per esempio, partecipo ad un progetto live con un set composto da un pianista che suona un Rhodes che entra nel mio mixer e io “dubbo”, aggiungo effetti, creo microloop e tutto ciò crea un performance che cattura l’interesse del pubblico perché accade qualcosa, anche visivamente.

 

Oltre ai problemi legati alla crisi dell’intero sistema musicale, ci sono gli ovvi problemi legati alla situazione del nostro paese?

 

M.M.: L’approccio italiano alla cultura è dannoso sia dal punto di vista culturale che economico. All’estero, la cultura è un business. Intorno ad un artista e ad un evento culturale ruotano una serie di figure professionali frutto dell’indotto creato. Quando vado in tournee, devo prendere un furgone, avere un autista, portare con me un fonico, ingaggiare un grafico per lavorare alle locandine e ad un possibile disco, pagare uno studio per il mastering; inoltre, i locali dove andrò a suonare daranno lavoro a persone al bar, alla biglietteria, ecc. Ci sono tante persone che potrebbero lavorare con gli eventi culturali.

Non dare alcun supporto, economico ma anche legislativo, alla cultura e alla musica, significa perdere un indotto che ruota intorno a questa realtà.

La figura del musicista in Italia non ha alcun tipo di tutela, è una figura professionale non riconosciuta. In un’epoca di mondo globale, stiamo ad inseguire paesi che rappresentano dei punti di riferimento, ma in questa competizione vinceranno sempre gli altri paesi, perché in Italia si importano solo gli aspetti penalizzanti e non quelli che valorizzano le opportunità.

In Germania, che risente, ma meno, della crisi globale, quando si ipotizzarono tagli alla cultura, venne fatto uno studio e si dimostrò, dati alla mano, che per ogni due euro investiti sulla cultura, ne rientrano quattro. Non è un caso che Berlino, per esempio, abbia più turisti di Roma. A Berlino si ha la possibilità di assistere a tantissime offerte culturali, ci sono tanti artisti interessanti, si possono ascoltare tanti generi musicali. Un ragazzo proveniente da Budapest è più interessato ad andare a Berlino che a Roma, dove non è possibile nemmeno mangiare un gelato pagandolo il prezzo giusto.

Spesso, dall’Italia vanno via tante persone disposte a mettersi in gioco, con spirito d’iniziativa, che se avessero avuto possibilità di lavorare serenamente in Italia avrebbero costruito qualcosa creando opportunità anche per altre persone, ogni persona che va via rappresenta un’opportunità in meno per l’Italia. Si parla tanto, in questo periodo di Soundreef come alternativa alla SIAE… Ebbene quei ragazzi che hanno creato Soundreef avrebbero potuto dare vita a questa struttura in Italia, e invece sono stati costretti ad andare altrove, creando lavoro al di fuori dell’Italia.

Non ha senso guardare alle altre nazioni importando solo quegli elementi distruggono la crescita. Che benefici può apportare l’abbassamento dei salari dell’operaio, quando alla fine non si riuscirà mai a competere con i livelli salarali che ci sono in Asia e che consentono di arrivare a prodotti finiti dal costo bassissimo?

Inoltre si parla tanto di adeguarsi al modello europeo, per quel che concerne i minori diritti ai lavoratori lasciando maggiore libertà di licenziare il personale, come accade in Germania. Ma in Germania esiste anche un sistema di ammortizzatori sociali in grado di supportare i lavoratori licenziati tramite un reddito di cittadinanza e nuove opportunità di formazione lavorativa, ma questi temi non arrivano mai sul tavolo della discussione politica.

Non ha senso pensare all’Italia produttrice di scarpe quando in Cina si producono a pezzi impossibili. La Germania ha puntato sulla qualità e l’alta tecnologia ed è riuscita a conservare uno spazio importante sul mercato globale.

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Comments (12)

  • Rigel

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    Per una volta un professionista parla con grande sincerità dell’impatto della tecnologia sulla creatività, senza tirare in ballo massimi sistemi, filosofia o improbabili tesi pseudo-scientifiche.

    La frase “Se lavoro sui virtual insturments, inizio ad ascoltare i preset e non la finisco più” – è in assoluto la più semplice e vera che abbia mai sentito dalla bocca di un professionista a proposito di questo annoso argomento.

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  • Antonio Antetomaso

    |

    Complimenti Attilio,

    idea eccellente e ottimamente resa. Ansioso di leggere la seconda puntata.

    Reply

    • Attilio De Simone

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      Più che altro farei i complimenti a Marco, sia per la disponibilità che per i contenuti delle informazioni che ha messo a disposizione di tutti. È difficile trovare disponibilità e voglia di comunicare in professionisti di primo piano.

      Reply

  • synthy

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    sono molto d’accordo con quello che dice Marco, ci sarebbe da discutere piacevolmente per ore su alcuni punti, ma voglia il cielo che sia così almeno c’è crescita culturale

    Reply

  • K

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    Mi trovo d’accordo con tutto quello che dice sia a livello musicale che politico. Complimenti per aver pescato un artista valido e di esperienza da intervistare. Che peccato che in Italia quei pochi spiragli di aiuto alla creatività vengono soffocati dai rapporti clientelari e dalla burocrazia.
    Messina è decisamente un buongustaio… adoro il mio OSCar … se solo ci fosse un bravo cristo volenteroso ed esperto di Z80 …

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  • emanuele fiordellisi

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    ehehehe nino.. io ci suonavo con nino quando ero adolescente….

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  • Walter

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    Gran bell’articolo!
    Vorrei aggiungere due cose a cui tengo molto: molte volte -specialmente gli esordienti- tendono a soddisfare la “fame” del mondo del web e pubblicano più in quantità che in qualità, dopo un anno che suonano assieme pubblicano un disco, al secondo un altro EP e così via. Nella stessa maniera DJ che iniziano ad impratichirsi sentono “l’obbligo di dover iniziare a suonare” e farsi conoscere come se fossero fin da subito “tecnicamente” ineguagliabili e così si può rifare il discorso nella musica elettronica.
    Personalmente ringrazio di aver trovato sulla mia strada un ragazzo che appartiene al mondo dell’avanguardia elettronica che mi ha fornito due frasi su cui è bene riflettere e -sebbene di semplice formulazione- sono di difficile assorbimento: “Io sono per il poco ma buono.” e “video e suono sono due cose differenti”.

    Nella confusione d’informazioni che il web fornisce, nell’infinta possibilità di reperibilità di software, libri, informazioni d’altro genere, ci si sente onnipotenti, capaci ma si tende a confondere “il possedere cose” con quelle che sono alla fine le uniche cose richieste ad un musicista -le uniche infine che non è possibile reperire- : creatività, idee, limae labor e pazienza.

    Reply

    • Attilio De Simone

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      Hai ragione, al giorno d’oggi ci sono miliardi di persone che hanno accesso a possibilità tecnologiche virtuali che in passato erano accessibili solo per chi disponeva di molto denaro da investire nelle tecnologie (i professionisti del settore) e le opportunità di veicolare il proprio lavoro sono infinite rispetto al passato. Eppure, direi che stiamo vivendo uno dei periodi peggiori dal punto di vista della qualità musicale che si ascolta in giro…

      Reply

  • Dario

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    Intervista stupenda e preziosa!!

    Reply

  • peppo

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    Abbastanza in linea con ql che penso pure io ma in particolare… “Ma in Germania esiste anche un sistema di ammortizzatori sociali in grado di supportare i lavoratori licenziati tramite un reddito di cittadinanza e nuove opportunità di formazione lavorativa, ma questi temi non arrivano mai sul tavolo della discussione politica” daccordissimo… diglielo pure a [edit] nickyvendola. Stabbene

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