La febbre del vintage: quale cura sostenibile? (parte 1)

Written by Jacopo Mordenti on . Posted in Gear, Software, Tutorial

La febbre del vintage si direbbe non riuscire a passare. Un po’ tutti noi, perennemente alle prese con acquisti, vendite, scambi di strumenti musicali, nell’approcciarci a un qualsiasi vattelappesca finiamo per avvertire un solletico alla base del collo, una vocina che sussurra melliflua: “… ma suonerà come i vattelappesca d’annata?”

Di Jacopo Mordenti

abbey road

 

Non c’è antipiretico che tenga: la risposta, accompagnata da un sospiro funereo, perlopiù sarà NO. Né a ben vedere potrebbe essere altrimenti, perché con fin troppa facilità ci dimentichiamo come il suono con la S maiuscola – quello marchiato a fuoco nella carne di noi musicisti, quello che ci fa adottare un atteggiamento fideistico al limite del ridicolo, per cui “solo se è vecchio è buono” – è stato ed è tuttora il prodotto non di una singola macchina, ma di una combinazione ragionata di macchine: ad esempio la combinazione fra il sintetizzatore X, il preamplificatore Y e il registratore a nastro Z.

Ignorare di quanti e quali anelli si sia composta la catena del segnale che abbiamo assunto a riferimento – sia esso quello di un sintetizzatore, di una chitarra, di una drum machine, ecc. ecc. – significa candidarsi all’Oscar della Frustrazione, perché al nostro suono, qui e ora, probabilmente mancherà sempre qualcosa.

Dunque che fare? Piano A: tornare ab urbe condita e circondarci di tutto quello che potrebbe filologicamente portare l’acqua al mulino  del nostro delirio di onnipotenza. Fattibile, ma – in assenza di reali esigenze professionali – pile di preamplificatori, equalizzatori, compressori, registratori, ecc. ecc. ci lascerebbero in mutande. Piano B: lasciare perdere il tutto e goderci il molto che già abbiamo. Fattibile anche questo, ma la vocina di cui sopra non ci darebbe più pace.  Piano C: individuiamo il giusto compromesso fra spesa e divertimento (vorrei sottolineare la parola: divertimento) al fine di conferire al nostro suono quei colori – e a volte quelle imperfezioni – che per insondabili ragioni ci emozionano oltre ogni dire. Il software sta diventando, in questo senso, il nostro migliore amico: a fronte di una spesa contenuta, oggi come oggi, rischiamo di ritrovarci per le mani dei plugin intenti ad emulare quei punti nevralgici della catena del segnale di cui si parlava poc’anzi.

magnetic II

Un esempio pratico: Magnetic II di Nomad Factory, acquistabile sulla piattaforma Don’t Crack alla folle cifra di 90 dollari. Il pupo si prefigge di colorare il segnale in ingresso alla stregua di un registratore a nastro dei bei tempi andati, riunendo all’interno di un’interfaccia tutto sommato semplice non uno ma tre stadi di intervento:

  1. Uno stadio di preamplificazione, regolato dalla combinazione fra GAIN BOOST e OUT CEILING, per saturare più o meno sottilmente il segnale (con tutti i risvolti in termini di dinamica e linearità in frequenza che questo comporta).
  2. Uno stadio di equalizzazione, regolato per il tramite di LOWS e HIGHS, per intervenire più o meno gentilmente su alcune specifiche frequenze (significativamente espresse non in Hz, ma nei termini tipici della masterizzazione).
  3. Uno stadio di colorazione da nastro magnetico, la vera chiave di volta del plugin: da un lato si può scegliere di emulare uno fra nove registratori storici (fra cui Studer, Otari, Tascam: l’elenco a sinistra parla da solo, o quasi), dall’altro si può intervenire sulla velocità del nastro (REEL SPEED), sulla sua saturazione (SATURATION), sulla sua colorazione (TAPE COLOR). Particolarmente strategico il controllo WOW & FLUTTER, con il quale dosare le preziose, imprevedibili imperfezioni del sistema nel dominio del tempo.

 

Nella seconda parte di questo articolo daremo luogo a qualche prova su strada di Magnetic II, sfruttandolo sia su singoli strumenti che su interi mix. Come sempre l’ortodossia ci piace, ma l’eterodossia ci intriga…

 

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Comments (5)

  • alberto

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    Cioè curiamo la febbre del vintage con un plugin? Mah.

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    • Jacopo Mordenti

      |

      Personalmente credo sia molto importante stabilire – per così dire – il soggetto della cura.

      Come indicato fra le righe, il professionista comprensibilmente indirizzerà le proprie risorse verso l’hardware, perché considerazioni di tipo economico e logistico saranno magari subordinate a quelle di tipo prestazionale; il semplice appassionato, altrettanto comprensibilmente, magari potrà invece accontentarsi dei risultati – gradevoli e divertenti – di cui alcuni plugin sono oggi capaci. Tutto qua.

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  • Attilio De Simone

    |

    Ormai sono giunto alla conclusione che analogico e digitale sono due mondi differenti che possono, anzi devono convivere. Ognuno usa dell’uno e dell’altro mondo quello che serve e che piace dando un occhio alle esigenze e un occhio al portafogli. L’investimento serio si fa dove proprio non si può risparmiare (se per un musicista è prioritario avere un synth analogico, allora i soldi vanno spesi lì), e poi il resto va preso un poco tra l’usato e un poco tra i plugin. Ricordiamoci sempre di una cosa: tra nuovi analogici e plugin abbiamo accesso a possibilità che 10-15 anni erano accessibili investendo molte decine di migliaia di euro. Fino alla seconda metà degli anni ’90 a casa si lavorare ancora col 4 piste e negli studi di registrazione più economici si lavorare con i 16 piste registrando direttamente su musicasseta. È dal 1998 circa che le cose hanno cominciato davvero a cambiare, con l’avvento dei computer. Non ci lamentiamo, prendiamoci tutto quello che offrono i due mondi con intelligenza. Analogico e digitale devono convivere, finchè non ci sarà l’avvento di una nuova era.

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  • carlito

    |

    eh magari si curasse coi plugins la febbre :(

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