Keith Emerson è morto

Written by Enrico Cosimi on . Posted in Events

Apprendiamo dalla stampa internazionale la morte di Keith Emerson. E’ una notizia terribile che non ci sentiamo di commentare. Su richiesta di amici, in memoria del PIU’ GRANDE di tutti, ripubblichiamo la vecchia recensione (stiamo parlando di UNDICI anni orsono) scritta in occasione del suo ultimo concerto romano con la Keith Emerson Band (all’epoca, la rivista si chiama Rec’N’Play… altri tempi). Sad affection. Più che meritato, un enorme ringraziamento a Paolo Dolfini per aver conservato il testo originale. 

Di Enrico Cosimi

emo modular

L’immagine in apertura è tratta da Wikipedia; cercheremo – ma non nascondiamo le difficoltà – di recuperare nei prossimi giorni la documentazione fotografica originale dell’evento. 

Keith Emerson Band In Concert

Roma, Auditorium di Via della Conciliazione; 1 Dicembre 2005
La cornice è quella delle grandi occasioni: l’ultima volta che siamo stati all’Auditorium di Via della Conciliazione c’era Rubinstein che eseguiva il beethoveniano concerto “Imperatore” per pianoforte ed orchestra… insomma, è passato qualche anno e la situazione era molto più classica di quella attuale.
di Enrico Cosimi

Che poi anche Keith Emerson possa essere considerato un classico nel suo genere, è un discorso interessante ma che, al momento, non ci riguarda… Comunque; l’auditorium è stato equipaggiato con una installazione di tutto punto: sul palco trova posto il sistema di tralicci con americane che sospendono un nutrito parco luci, ai due lati del palco sono state montate le torri dell’impianto P.A. (che, per dimensioni ed aspetto minaccioso, risaltano abbastanza preoccupanti nella taratura acustica del teatro).

Batteria sul fondo, pedana rialzata, bass rig sulla destra del palco, tre piccoli combo valvolari piazzati davanti al drum riser e, in ampio risalto, sulla sinistra del palco trova posto il setup di Keith Emerson. In fondo, sulla destra, un oggetto misterioso è celato da lunghi veli neri: che si tratti del povero Hammond L100, pronto per essere maltrattato da Keith durante i consueti numeri di wrestling? Vedremo.

 

La strumentazione

In questa occasione, Keith utilizza uno dei due C3 Hammond customizzati da Al Goff; per la cronaca, uno dei due strumenti è interamente originale, l’altro utilizza un premplificatore a transistor modificato; nel corso della serata, abbiamo avuto l’impressione che determinate asprezze timbriche –inedite per il buon Keith- fossero da imputarsi proprio alla natura transistorizzata del famigerato preamplificatore. In mancanza di notizie certe (non potevamo salire sul palco armati di cacciavite…), queste rimangono opinioni più che personali.

Comunque, lo strumento portatilizzato da Al Goff è interamente alloggiato nel cassone superiore e poggia su un supporto metallico che ospita la scatola del pedale di espressione; non è la customizzazione più efficace –per spostare l’apparecchio servono sempre due persone, ma questo potrebbe non essere un problema- ma è quella che semplifica di molto il lavoro. Adiacenti alle zampe metalliche, trovano posto i controlli del leslie tremolo/chorale su footswitch (anche se in certi momenti, abbiamo avuto l’impressione che la velocità del leslie venisse regolata da un tecnico compiacente, boh..). Il rotary speaker, comunque, è celato alla vista, ben lontano dalla postazione del musicista – se ne sente la voce dal retro palco quando il keyboard technician presta gli ultimi controlli prima di iniziare.

Sopra all’Hammond, troneggia –inevitabilmente- la Korg Oasys che, qui come per i Dream Theater, sembra aver incarnato il concetto di tastiera tuttofare di lusso: del resto, 7500 euro per una workstation possono permetterseli in pochi. Alla sinistra dell’Hammond + Oasys, troneggia l’enorme modulare Moog, ormai da anni inscatolato in un contenitore custom metallico che ne facilita il trasporto e la sopravvivenza; la tastiera 5 ottave è messa bella alta da terra, il ribbon controller – con annesso lanciarazzi- è appoggiato per terra pronto all’uso. Completa la dotazione, un Korg Triton Extreme a 88 note. Oltre al pedale di volume dell’Hammond, sono presenti gli switches per il leslie, i damper per Oasys e Triton e altri due foot control misteriosi, che Keith (peraltro) utilizzerà con estrema parsimonia. Ah: c’è anche un accordatore cromatico Boss direttamente collegato al sintetizzatore modulare; vedremo in seguito come il suo funzionamento sia cruciale per la riuscita di determinati brani.

Manca il Korg BX-3 utilizzato come spare clone durante la tournee americana. Ai due lati del torreggiante modulare, trovano posto i keyboard monitor Bag End; per terra, di lato alle tastiere, sono invece posizionati i tradizionali stage monitor del PA; in pratica, abbandonato il muro di leslie degli anni ’70, Keith suona in mezzo a quattro monitor che lo immergono nel suono.

Un mini alberello in fibra di vetro dona il giusto tocco natalizio all’intera postazione.
Non ci sono più bottiglie di vino rosso (…avete presente il Montreal Concert?):questa volta Keith si disseta con svariate bottigliette di acqua minerale. Meglio così.

 

Il concerto

Dopo un ritardo più che accademico – ma bisogna aspettare che l’Auditorium quantomeno accenni a riempirsi (e visto il prezzo dei biglietti, l’operazione ha avuto comunque un risultato miracoloso, degno del big che si è esibito…) – finalmente le luci si abbassano ed introdotti dalla solita coattissima introduzione di pipe organ fanno finalmente il loro ingresso in scena i quattro musicisti: apre la fila Keith Emerson, in buona forma fisica, appena ingrigito nel crine, vestito in maniera decisamente più sobria dell’ultima volta (1997) al Centrale del Tennis; immediatamente dietro ci sono Dave Kilminster, cantante / chitarrista dallo sweep perenne, poi Peter Riley alla batteria e Phil Williams al basso. Kilminster già in precedenza aveva collaborato con Emerson in occasione del reunion tour dei Nice, quello sfociato nella registrazione del triplo Vivacitas; a lui si deve l’assemblaggio della odierna Keith Emerson Band, con la sezione ritmica presa di peso dal line up del suo ultimo album solista. Ancora più indietro nel tempo, Dave aveva suonato con Carl Palmer e John Wetton all’interno del supergruppo Qango.

Bene, ci siamo tutti! Raggiunti gli strumenti, mentre i fotografi accreditati sotto al palco (compreso il sottoscritto) scattano all’impazzata, parte l’inconfondibile sample & hold che introduce il primo brano…

 

Welcome Back…

Come era tradizione degli ultimi concerti ELP, si parte con la seconda parte della First Impression da Karn Evil 9. Ancora una volta il sample & hold iniziale prima sugli oscillatori (scordati) del Triton e poi sul filtro del modulare; dopo, i torridi duetti tra organo e voce di Kilminster. Chi scrive ha avuto l’impressione, forse fallace, che anche l’effetto iniziale non fosse emesso dal mastodontico modulare, bensì dal Triton Extreme alla sua sinistra. Boh. Comunque in apertura di brano Keith trova modo di mettere in scena un piccolo duetto con il Triton, riportando all’unisono un tricordo indesiderato. Appare immediato il notevole impatto sonoro che la nuova ritmica e i ricorrenti raddoppi tra basso e chitarra conferiscono al brano; da notare che, in presenza di un vero bassista, Keith non si perita più di eseguire le parti corrispondenti con la sinistra e sembra particolarmente concentrato su Hammond ed Oasys. Il sound, almeno per ora, è significativamente sbilanciato a favore della chitarra elettrica, speriamo meglio in seguito. L’assolo di Emerson è quello storico, obbligato da California Jam in poi:nota per nota, fino al ribattuto finale, questa volta con tanto di leslie in tremolo speed. I fraseggi di Kilminster riproducono paro paro le parti di Lake, l’interazione tra organo e chitarra è estremamente rispettosa del modello originale. Ah, su “dixieland – dixieland” c’è una breve citazione di Maple Leaf Rag, tanto per gradire.

 

Toccata

Non quella di Karn Evil 9, bensì il terzo movimento del Concerto per Piano ed Orchestra dall’album Works. In mancanza dell’orchestra, le parti sono riarrangiate assegnando alla chitarra buona parte delle melodie originariamente eseguite dagli archi. La parte di pianoforte, compreso l’infuocato segmento iniziale per ottave, è eseguito sull’Oasys. Il suono inizia a bilanciarsi, quantomeno i segnali di linea emessi dalla tastiera sembrano avere maggior fortuna che non i segnali microfonici del Leslie. Le parti ritmiche sono ben incastrate con i salti di melodia tra pianoforte by Oasys e chitarra che raddoppia, armonizza o, spesso, si carica del ruolo originariamente previsto per l’orchestra. Inedito il drive ritmico sotto il lungo pedale di pianoforte prima della cadenza finale, gran giochi di di doppio battente prima della cadenza discendente armonizzata.

Esecuzione tirata, a tratti si rimpiange l’orchestra, ma la nuova versione simil-prog del brano scorre via veloce; grande applauso finale che introduce…

 

Living Sin

Si, si! Proprio il vecchio classico dall’album Trilogy. Le cose iniziano a mettersi meglio per l’Hammond che comincia lentamente ad apparire nel mixaggio front of house; la chitarra è ancora in prevalenza, ma almeno si capisce perché Keith muove le mani. Il suono è più cattivo del solito, la percussione (terza armonica fissa) buca in mixaggio ed, in generale, sembra che questa volta il Leslie sia stato veramente tirato per il collo, più del solito. Da notare che, come per buona parte del concerto, Emerson sembra prendersi più occasioni per variare la velocità del leslie, passando da chorale a tremolo per puntualizzare i punti salienti di parecchi passaggi.

Tutti i fraseggi metal dell’organo sono ovviamente raddoppiati dalla chitarra elettrica ed il sound del brano acquista un sapore ineditamente granitico. I glissati sono eseguiti con eleganza in punta di pollice; synth brass forniti cortesemente da Triton ed Oasys.

 

Bitches Crystal

Ancora un passo indietro, questa volta torniamo sull’album Tarkus per il brano che già faceva bella mostra nella scaletta 1997 degli ultimi concerti ELP. Dopo un’introduzione non priva di qualche incertezza, entra il groove vero e proprio: caratteristica fondamentale del pezzo è un gioco di ottave in mano sinistra capace di stendere anche l’esecutore più resistente. Il buon Keith si esibisce con un notevole relax, dando enorme risalto all’andamento ternario della mano destra. La voce di Kilminster raggiunge il suo limite acuto ed a stento l’esecutore non ci lascia le penne; in un angolo, Greg Lake avrebbe ridacchiato sotto i baffi…

 

Hoedown

Finalmente il mixaggio viene corretto e tutti i presenti sono ora consapevoli che stanno ascoltanto la Keith Emerson Band e non la Dave Kilmister Band…
L’apertura di sint (il lungo re con il secondo oscillatore trascinato dall’inviluppo) è campionato e viene triggerato direttamente dalla tastiera dell’Oasys. Il brano scorre ad una velocità relativamente contenuta (niente a che vedere con le accelerazioni esasperare del triplo album dal vivo…) e la chitarra di Kilmister doppia gli obbligati della tastiera. Non è la prima volta che il brano di Copland viene arrangiato in questo modo ed almeno altre due tribute bands hanno inciso Hoedown arrangiandolo in questo modo per/con la chitarra; la cosa divertente è notare come la chitarra elettrica sembri “fuori di luogo” all’interno del classico ELP; ciò non toglie che l’esecuzione sia tirata, granitica, veloce e potente come era giusto aspettarsi. Armonizzazioni per terze tra organo e chitarra sugli obbligati in sol maggiore, niente siparietto con il ribbon controller. Almeno per ora. In compenso, sul lungo open centrale che, introdotto da uno sweept di chitarra, dilata la stesura originale, Emerson imbraccia l’armonica a bocca e si esibisce in un fraseggio blues piacevolmente inquadrato; la tecnica non è esaltante, diciamo che Emo suona l’armonica come la suona Roger Daltrey degli Who: da secondo strumento, il risultato comunque è interessante ed il pezzo viene concluso tra le ovazioni del pubblico.

 

Country Pie

Addirittura un repechage dal vecchio repertorio dei Nice! La ballad di Bob Dylan era (ed è ancora oggi) un piacevole pretesto per sgranare una appresso all’altra diverse sezioni solistiche incastrate negli intervalli del canto. Che la voce di Lee Jackson fosse più rauca e limitata di quella di Kilminster è un dato di fatto, ma è altrettanto innegabile che la linea di basso, questa volta eseguita con un non meglio giustificato fingered mood risulti del tutto fuori calibro con il brano originale.
Gran bei fraseggi all’Hammond, fluidi quanto basta per dimostrare che (con tre o cinque dita che dir si voglia) Keith rimane ancora l’incontrastato signore dell’organo Hammond. L’intervento baroccheggiante, direttamente ripreso dal terzo concerto brandeburghese di Bach è eseguito con profitto sul “solito” Oasys, con significativi interventi obbligati della chitarra.

 

Static

E qui si paga la tassa… Static, composto da Kilminster è un gradevole brano rock a metà tra l’AOR ed il melodic-metal. Insomma: non dura troppo a lungo (per fortuna, dicono i maligni delle prime file…) e lascia spazio agli assoli del band leader e del chitarrista. Begli obbligati di Hammond tra una strofa e l’altra.

 

Karelia Suite

Di nuovo indietro fino al tempo dei Nice! Registrata in tutte le possibili salse, con o senza l’orchestra, l’intermezzo dalla Karelia Suite di Sibelius apre con un sano crescendo orchestrale – ancora una volta cortesia di Oasys, con tanto di tremolo strings sulle basse, e Triton – per poi passare alla struttura accordale vera e propria interamente eseguita sull’Hammond. Mentre la mano sinistra continua a rinforzare i bassi, la destra lavora sull’organo. Basso e chitarra portano l’andamento di marcia che viene spaventosamente rinforzato dalla batteria. Quando il brano apre con gli assoli, anche se non c’è la fluidità sonora dei vecchi Nice, c’è veramente tanto da ascoltare. Le note sono quelle giuste ed anche il feeling sembra procedere alla grande. L’organo questa volta suona con lo stesso timbro “acido” del vecchio A-105 del periodo Nice: leslie fisso su chorale, drawbars sullo standard 4 fuori, fraseggio alla grande tutto di mano destra con interventi agli ottavini dell’Oasys. Poi arriva l’open con chitarra millenote, brass synth che tengono l’armonia e le cose diventano inedite. Yum yum, niente male!

 

Piano Solo – New Orleans

Vi ricordate di quel misterioso oggetto sulla destra del palco, nascosto da veli neri? Non è il povero L- 100 in attesa di essere maltrattato, bensì un piano a coda Schultze Pöllman 180, laccato rosso fuoco che ospita un inatteso duetto tra Emerson e Kilminster. Il piano Ferrari, come subito lo ribatteza Keith sostituisce per questa data l’abituale presenza del codino digitale GEM, da anni marchio supportato dal nostro eroe. I due musicisti si avvicinano alla nuova postazione ed inizia il brano con una lunga introduzione di solo piano dedicata alla tragedia di New Orleans. Inizia Kilminster con un bel fraseggio di acustica e proprio in quel momento il tecnico di palco decide di portare via la Tele di Dave per dargli un’accordata: niente di male in ciò, senonchè – complice l’atmosfera intimista sul palco ed il buio corrispondente – si dimentica di staccare il jack dall’altra parte e dall’ampli della chitarra elettrica irrompe un boato quantomeno inaspettato… Dave e Keith si girano verso il malcapitato tecnico, poi continuano a suonare… altro boato prodotto dal poveretto nel secondo tentativo di prendere la chitarra elettrica. A questo punto, a Keith non rimane che prendere il microfono, scusarsi e ricominciare da capo tutto il brano.

Lungo quanto basta, fluido quanto basta per non far rimpianger Take a Pebble, con delle divertenti aperture blues portate avanti dalla mano sinistra e dalla chitarra acustica, c’è un bel palleggio di grooves, poi Emerson mette il pilota automatico ed inizia ad improvvisare sui giri stride e rock’n’roll come nelle antiche versioni live di dei tempi che furono.

 

Creole Dance

Parte integrante del siparietto di solo piano ormai da anni, non poteva mancare l’intricato brano di Ginastera. Il compositore argentino, lo stesso della “Toccata” presente su Karn Evil 9, ha sempre apprezzato le trascrizioni emersoniane ed anche in questo caso non si sarebbe potuto lamentare per il trattamento riservato alla propria composizione. Non tutte le note sono pulitissime, specialmente nei passaggi più diabolici, ma del resto, ad Emo si può perdonare questo ed altro. C’è una significativa citazione di “Something ‘s Coming” di Bernstein – da West Side Story – prima di tornare sull’obbligato iniziale.

 

Touch and Go

Tornano in scena gli altri due musicisti, si riaccendono le luci, Kilminster imbraccia nuovamente la Tele Paisley appena riportata dal rumoroso tecnico, Keith riprende posto nel suo castello di tastiere ed annuncia Touch and Go, dal periodo ELP con Cozy Powell alla batteria. Esecuzione impeccabile, rinforzata dalla presenza simultanea di basso e chitarra, mentre gli incastri tra melodia e parti di tastiere segue fedelmente il percorso originale, quindi relativamente poco Hammond e molti sintetizzatori polifonici.

 

Lucky Man

Uhmm… Ed eccoci al primo tributo che Kilminster dedica a Greg Lake (non sarà l’unico nel corso della serata). Imbracciata la dodici corde, Dave si lancia nell’esecuzione del classico brano in sol maggiore. L’arrangiamento ricalca quello già sperimentato nel corso delle ultime tournee ELP, solo che con quattro musicisti sul palco, le cose vanno avanti più fluidamente. Non c’è più l’assolo centrale (originariamente di chitarra elettrica, in epoche più recenti sostituito da uno di tastiere), questa volta c’è un passaggio di piano + archi abbastanza “spettinati” ed il brano finisce in maggiore come nell’esecuzione del triplo dal vivo. Ma, le cose non possono finire così! Ed infatti, il quartetto riprende lo strumentale in La- Mi- Re perché da li a poco Keith sta per lanciare il mitico assolo sul modulare… Eccoci al dunque: Keith si gira verso la tastiera del modulare, preme il fatidico La e l’intero auditorium rimbomba del possente suono emesso dal Moog. Peccato che le prime due o tre note risultino drammaticamente crescenti! A questo punto, ci chiediamo: invece di andare a fare il solletico alla Telecaster Paisley, perché il tecnico di prima non si è fatto un giretto su modulare con l’accordatore? Comunque, l’assolo va avanti con una mano e con l’altra si ristabilisce – ad orecchio ed in tempo reale – l’accordatura; il fraseggio non è quello storico dell’incisione (tra l’altro, Keith non è proprio che abbia un bel rapporto di questo assolo in particolare), ma permette al tastierista di mostrare tutta la potenza del modulare nelle drammatiche sweeppate di frequenza lungo le cinque ottave della tastiera. In corrispondenza dei Re bassi, l’impianto e l’intera acustica dell’auditorium sembrano alzare le mani ed arrendersi. Tutto il pubblico sente gli Hertz delle onde quadre più famose del rock giù dentro lo stomaco e su per la spina dorsale; finale con citazione natalizia della Troika di Prokofiev, proprio prima della resonance di prammatica…

 

America

Si parte con gli accordi di pipe organ su Oasys per poi atterrare velocemente sull’Hammond; non ci sono i fischi e botti della versione ELP, ma anzi la presenza della chitarra riporta parecchio il timone verso le antiche rotte dei Nice; ancora una volta, Kilminster non è Davy O’List (per fortuna), ma l’arrangiamento è quello ed i musicisti sembrano divertirsi parecchio in tutti gli obbligati. Passato l’obbligato iniziale e la sua trasposizione una quarta sopra, arriviamo agli assoli, dove Emerson divide di buon grado la ribalta con Kilminster. L’Hammond chopped by Goff non è proprio fatto per essere trascinato avanti ed indietro sul palco, quindi l’esecuzione tralascia tutta la parte di wrestling con l’Hammond ed i feedback che ne risultavano.

Questo non significa, come vedremo in seguito, che Emerson lasci perdere i glissati a mulinello che intercalano la ripresa in Do maggiore. E, senza fermarsi, mentre la ritmica pesta già di brutto, arriviamo a…

 

Rondò

La cavalcata sembra inarrestabile. Le note originali di Dave Brubeck risuonano nell’auditorium. Questa volta, sopra l’obbligato per terze minori dell’organo c’è un fraseggio di chitarra che – a note lunghe – evidenzia i cambi armonici; esecuzione molto tirata e, finalmente si arriva agli assoli, o meglio ai funambolismi classici ELP.

Emerson intraprende un botta e risposta con Kilminster che lo porta, poco dopo, a suonare al contrario la tasteira dell’Oasys per la consueta citazione mirrored della Toccata e Fuga in La minore. Ancora una volta, con tre o cinque dita che dir si voglia, il nostro eroe picchia giù di brutto. Ecco la consueta, coattissima ed applauditissima, citazione del Calabrone, questa volta fatta a botta e risposta tra tastiera e sei corde, con sotto-citazioni purpleiane.

Ma non è l’unica cosa ad andare giù di brutto perché, alla fine del brano – nel frattempo Keith è tornato davanti alla tastiera e termina America con un infuocato finale sull’Hammond – il Korg Oasys alza bandiera bianca e si pianta di brutto, lasciando i nostri eroi in braghe di tela.
Il primo a rendersi conto dell’accaduto è Keith che, con calma e signorilità avverte al microfono che “siccome bisogna ricare un giga di roba, ci vorranno due o tre minuti di tempo fintanto che l’Oasys non riprende conoscenza”. Clima rilassato, risate, il bassista propone “un bell’assolo di batteria”, ma viene placato in tempo dal bandleader che, nel frattempo, continua a monitorare il progresso del reloading sullo strumento.

Finalmente l’Oasys torna a nuova vita (diverse teorie al riguardo: forse Emerson ha urtato nell’interruttore On/Off? Oppure ha spostato inavvertitamente il cavo di alimentazione? Oppure è stato un bug bello e buono…) e, contrariamente a quanto tutti si aspetterebbero, le mani di Emerson si posano sul Triton per annunciare il nuovo brano che è, testualmente, un vero e proprio attacco.

 

Tarkus – Eruption

E finalmente ci siamo! Il largo accordo iniziale di di coro fanno desiderare il riff in 10/8 più cattivo che il mondo ricordi. La velocità è quella minacciosamente moderata della versione in studio, ma questa volta il fraseggio è eseguito simultaneamente dalla mano sinistra di Keith, dalla chitarra e dal basso che si limita a caricare sulle toniche; contemporaneamente la batteria lavora pesantemente di doppia cassa e di rullante nei punti giusti… una versione così di Tarkus non si è mai sentita!

Inesorabilmente, ci avviciniamo al momento in cui –una volta- le mani si incrociavano ed il modulare lanciava i suoi ululati… ma ancora una volta il modulare Moog sembra intenzionato a far ricordare la serata, perché per tutto il fraseggio, il suono non esce, ovvero lo strumento è rimasto con gli inviluppi ed il filtro chiusi come erano stati lasciati sul finale di Lucky Man e quindi a Emerson non rimane che eseguire filosificamente gli obbligati sull’Oasys, privilegiando un misto pianoforte +synth brass. Degno di nota il fatto che, come è giusto che sia, nel frattempo l’Oasys funziona a tutto vapore e fornisce anche un bel colpo di gong.

 

Stones of Years

Kilminster voce e chitarra, Emerson organo. Punto. L’assolo di Emerson segue il nuovo stile degli accordi a mulinello e delle alternanze left / right, upper / lower già sperimentate nelle ultime tournee

ELP. Spariti i lunghi fraseggi delle registrazioni originali (peccato), sparite (per fortuna!) le armonizzazioni sui brutti sintetizzatori polifonici del setup anni ‘90.

 

Iconoclast

Anche la velocissima scaletta discendente iniziale viene eseguita sotto forma di campionamento triggerato sulla Oasys! Ancora una volta, il riff micidiale stende il pubblico ed i cambi di accento rispecchiano la stesura originale del brano; ma non c’è tempo di riprendere fiato, perché in breve si arriva a…

 

Mass

Originariamente annunciata dal fraseggio con gli oscillatori accordati per quinte e terze, questa volta Mass parte direttamente chitarra solista, Oasys e (poco) Hammond, cui si agganciano velocemente Kilminster e la ritmica. Lungo tutto il brano, Emerson non tiene più il basso con la mano sinistra, ma si diverte ad infiorettare tra una frase e l’altra del cantato incastrando accordi dell’Oasys.

Suona, suona, arriviamo all’assolo centrale, con l’ormai storico ribattuto di la minore: anche in questa occasione, il suono dell’Hammond di Keith è un modello di cattiveria e presenza rock, niente che possa piacere alle fighette del jazz (…sia detto in termini assolutamente affettuosi) o a quanti inorridiscono di fronte ad un key click in bella evidenza. Ma ci sono anche inediti fraseggi ascendenti per ottave! Insomma, non si sa più cosa ascoltare, poi arriva anche il modulare con le onde quadre di Lucky Man: basta poco per richiamare le più ricche sawtooth e –assolutamente inedito!- Emo suona con la destra mentre con la sinistra usa il modulo LFO come sorgente di vibrato. Poi si sale di tono, passando in Si minore. Bene, ognuno torna ai propri posti, che c’è l’alzata di tono: nuova strofa in si minore e finalmente anche la messa è terminata. La messa si, ma non la musica, che continua con una spaventosa…

 

Manticore

L’esecuzione tira come una locomotiva, l’alternanza è tra Oasys… e Oasys, piano + brass synt sulel basse, flautino sugli acuti per i fraseggi degli stop. L’Hammond tristemente viene lasciato in disparte. E, cogliendo tutti di sorpresa, ecco riesumato anche il ribbon controller, con tanto di lanciarazzi incorporato! Questa volta non li ferma più nessuno e, dopo aver accennato ad una veloce pulizia del fondo schiena con il ribbon, Emerson, Kilminster e Williams iniziano a fare il bump in mezzo al palco, tra ondeggiamenti di capelli ed accenti portati con le spalle. Vero Metal!

Dopo l’ultimo obbligato, invece del tradizionale lancio che preludeva Battlefield, questa volta c’è un vero e proprio assolo di Peter Riley alla batteria – con phaser regolamentare -, solo apparentemente dotato di due braccia e due gambe, Riley si prende tutto il tempo necessario mentre la scena viene rinforzata da un grande light show; nel frattempo gli altri tre musicisti raggiungo il retro palco per una pausa ristoratrice; finalmente l’assolo termina sull’obbligato ritmico che introduce…

 

Battlefield

Ed a questo punto, mentre Kilminster chiede a gran voce che il campo di battaglia venga ripulito per lasciargli vedere cosa è successo, parte la familiare struttura in quattro accordi. Il peso del brano è quasi interamente sorretto dalla chitarra acustica.
E, sulla fine del brano, rimangono da soli Emo e Kilminster che non trova di meglio che (dopo aver tenuto un “did you staaaaand” interminabile e drammaticamente calante…) evocare il secondo tributo a Greg Lake, infilando nel testo di Battlefield le righe originali di Epitaph dei King Crimson. Anche il ribattuto dell’eco sulla voce è lo stesso del triplo dal vivo; l’unica cosa che lascia perplessi è la logica degli avvenimenti: nel 1974, Lake citava il suo passato facendo riferimento ai King Crimson, nel 2005 Kilminster cita Lake che citava il suo passato… boh.

 

Aquatarkus

Comunque, si riparte per il doppio brano finale della suite; prima il lento allontanarsi dell’armadillo carrarmato ferito (ce l’avete presente l’artwork originale di William Neal, vero?) con tutti gli obbligati in Fa eseguiti da Emo, con la mano destra sull’Oasys – pipe organ – rispettando la triade originale anche se la diteggiatura utilizzata è quanto meno bizzarra (primo, secondo e terzo…).

Il tema è costruito con un inedito timbro synt strozzato tra portamento e filtraggio particolarmente nasale per costruire, assolo dopo assolo su Oasys, modulare ed Hammond, il lento climax che caratterizza la prima parte del brano.
Poi la seconda parte, con la ripresa di Eruption che, tra la gioia generale, (dopo un program change saltato sull’Oasys) vede finalmente il modulare all’opera. L’insieme è devastante: una versione così selvaggia di Tarkus non si era sentita neanche ai tempi d’oro degli ELP e, tra l’ovazione del pubblico, i quattro musicisti lasciano il palco.

Noi ci spelliamo le mani, battiamo i piedi, facciamo casino, ma loro sembra proprio che non vogliano più tornare… Intanto ci riaccalchiamo tutti sotto al palco e finalmente le luci si riaccendono, compaiono i quattro musicisti che tra un ringraziamento e l’altro imbracciano gli strumenti; partono dal pubblico le richieste più disparate, da Five Bridge a Endless Enigma, fino a C’est la Vie. Ma le chiacchiere si fermano di colpo quando Kilminster intona le prime note di…

 

Black Dog

Si si, avete capito bene. Black Dog dei Led Zeppelin, strillata al punto giusto da Kilminster ed eseguita in quartetto con Emerson che si diverte a doppiare su Hammond ed Oasys gli obbligati di chitarra, separando parte delle originali sovrapposizioni di Jimmy Page. La ritmica è quella giusta e non si sente – non me ne vogliano gli amanti degli Zep – la mancanza di Bonzo e Johnes.

Mentre spariamo nuovamente foto a raffica, le orecchie ci fischiano letteralmente perché il fonico di sala ne approfitta per portare il livello generale un pochino più in alto.

 

Fanfare for the Common Man

Dopo di che, non può mancare la maestosa struttura in Do maggiore concepita da Copland per omaggiare l’uomo comune. Oasys a tutta birra sia per gli obbligati brassosi che per le lunge sequenze improvvisate in Mi minore. L’Hammond riveste una parte minore, come nelle precedenti versioni dal vivo del brano. Chitarra e tastere si dividono il palco, lasciando agli altri due musicisti il compito di porte avanti il peso ritmico dell’intera struttura.
Ancora una volta si finisce, il pubblico continua a spellarsi le mani ed i quattro abbandonano il palco, almeno apparentemente.

 

Honky Tonk Train Blues

Ma l’apparenza inganna perché dopo quasi cinque minuti di standing ovation, rientra Emo che da dietro all’Oasys (attento ai falsi contatti!) innesca un effetto sferragliante ed annuncia “the train is starting!”. Dopo di che, si parte con Honky Tonk Train Blues, per l’occasione contratto nella sua struttura originale, ma dilatato per meglio ospitare gli interventi che a turno i musicisti si concedono. Diventa una festa, una jam che comunica al pubblico il divertimento reale vissuto sul palco.

Grande concerto.

Il re è morto. Lunga vita al re.

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Comments (3)

  • Michele Laneve

    |

    Profondo sconcerto.
    Grazie di cuore per questo bellissimo articolo!

    Reply

  • Attilio De Simone

    |

    Emerson è stato indubbiamente uno dei padri del progrock. Il suo lavoro sulla sintesi ha fatto scuola e Tarkus è un vero e proprio manuale di sound design.

    Reply

  • AlexPini

    |

    Grazie moltissimo. Ho rivissuto alcune atmosfere idel primo concerto visto a 15 anni attraverso le tue parole. Un grande e affettuoso ricordo per Keith. la musica è per sempre. Grazie

    Reply

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