Case Study – Moog Minimoog Model D – Prima parte

Written by Enrico Cosimi on . Posted in Gear, Tutorial

Questo testo potrebbe chamarsi “Anatomia di un grande classico”, perlomeno nella sua parte iniziale. Senza ombra di dubbio, il Model D è il sintetizzatore monofonico che maggiormente incarna il senso del nuovo strumento elettronico secondo i dettami degli Anni 70; nel pieno dell’epoca analogica, infatti, i punti irresistibili erano facilmente identificabili in portatilità, facilità d’utilizzo, immediatezza nel riscontro audio, fun factor e – cosa non da poco – suono al di sopra delle aspettative. Ma come si è arrivati ad un simile risultato? Prima di lanciarci nelle operazioni di (ri)progettazione e ricostruzione virtuale dello strumento, meglio riavvolgere il film e lasciar scorrere le vecchie immagini…

Di Enrico Cosimi

 Sulla fine degli Anni 60, Moog Music è ferocemente impegnata a sopravvivere costruendo e vendendo costosi sintetizzatori modulari che – a dispetto del prezzo imponente – sono diventati oggetto dei desideri per parecchi produttori musicali; come è facile immaginare, la complessità, l’ingrombro e il prezzo di un modulare anche di media configurazione sono tali da scoraggiare una maggior diffusione commerciale e questo, in un periodo in cui anche altri costruttori si affacciano sul mercato per sottrarre fette di clientela, può diventare un problema.

L’idea di creare uno strumento più piccolo e portatile balena nella mente di Jim Hemsath (uno degli ingegneri che collabora con Bob Moog nei giorni gloriosi di Trumansburg) come diretta conseguenza del ragionamento precente: maggior portatilità, minor costo, maggior possibilità di diffusione. Peccato che, da questo orecchio, impegnato come è nei giri di promozione per i grossi sistemi modulari, Bob Moog sembri non sentirci…

C’è anche un’altra considerazione che sembra muovere verso il Minimoog: è consuetudine Moog lasciare a disposizione di musicisti fidati l’intero studio di registrazione attrezzato nel retrobottega della ditta; la mattina dopo, gli ingegneri verificano se qualcosa è andato storto e – da eventuali rotture o malfunzionamenti – deducono se il circuito sia realmente a prova d’idiota o se qualcosa possa essere ulteriormente migliorato.

Molto spesso, ci si rende conto che di fronte a metri quadri di strutture modulari, i musicisti si ostinano ad utilizzare una dotazione ridotta di circuiti, facilmente riassumibile in poche unità:

  • tre oscillatori audio,
  • un generatore di rumore,
  • un mixer audio, per sommarne i segnali,
  • un filtro passa basso,
  • un amplificatore controllato in voltaggio,
  • una coppia di inviluppi ADSR, per articolare filtro e amplificatore

oltre, ovviamente, alla tastiera e a qualche attenuatore per dosare l’uscita degli inviluppi. Tutto il resto dell’enorme sistema modulare molto spesso rimane trascurato.

E’ facile, a quel punto, prendere la decisione di cosa considerare indispensabile e cosa trascurabile nell’eventuale disegno di un sintetizzatore più piccolo e portatile…

Senza fare tutta la storia del Model D, già documentata in maniera eccellente nello splendido libro di Pinch e Trocco, per la nostra fortuna, Hemsath, Jim Scott e compagni riuscirono a convincere Bob Moog ed oggi, possiamo felicemente utilizzare il Minimoog in tutta la sua potenza timbrica, con una struttura sonora che è un felice esempio di semplicità e sofisticata pesatura degli ingredienti.

Proprio la sua struttura di funzionamento è oggetto del nostro case study.

Attenzione! Questo testo, l’insieme delle diverse puntate, sarò inevitabilmente lungo: oltre a percorrere – step by step – le procedure di remodeling necessarie per arrivare alle stesse caratteristiche operative del Minimoog Model D, è purtroppo necessario fare una panoramica preliminare in cui “rinfrescare” le funzionalità medesime, con particolare riguardo tanto al percorso audio, quanto a quello di controllo… per non parlare delle modulazioni. …e, non volete approfondire qualche concettuccio di base, tanto per non perdere la bussola tra macchine modulari, semi modulari, eccetera? Insomma, ci vorrà qualche puntata, prima di arrivare a padroneggiare l’argomento. Armiamoci di pazienza.

 

Minimoog Model D: how it works

Occorre non dimenticare mai che, nonostante l’oggettiva qualità hardware della realizzazione (trovate voi, oggi, uno strumento con cabinet in noce massello…), il Minimoo è un progetto “economico”, quantomeno portato avanti con un occhio di riguardo alla semplicità di realizzazione e di prestazione, specie se paragonato al più che impegnativo costo richiesto per i più complessi sistemi modulari a lui contemporanei. Inutile dire che non tutto è possibile con il Mini, ma il 95% dei classici suoni di analog synth ci sono e, molti suoni che hanno fatto la storia elettronica degli ultimi decenni, escono fuori dal Mini molto meglio che da altri strumenti elettronici.  Instant classic, appunto. Ma come funziona? Eccoci al dunque.

Le inevitabili considerazioni preliminari

Come per qualsiasi strumento acustico dinamico, controllabile e in grado di offrire risultati ripetibili, anche lo strumento elettronico articola il proprio funzionamento su tre punti fondamentali:

  • definizione dell’intonazione di base (e, conseguentemente, del timbro di partenza),
  • definizione del contenuto armonico,
  • definizione del volume con cui è prodotto il suono.

Questi tre parametri fondamentali e inevitabili si incarnano in altrettanti punti precisi del circuito, per quanto semplice ed economico lo si voglia fare.

Quindi, la sorgente sonora si occuperà di produrre le intonazioni ed i timbri di base (vedremo in seguito come “sorgente sonora” possa indicare diverse cose: oscillatori, generatori di noise, ma anche segnali audio ricevuti dal mondo esterno e opportunamente collegati al circuito…); uno o più circuiti di filtraggio provvederanno a modificare il contenuto armonico di base fino ad avvicinarsi al risultato desiderato dal musicista; un amplificatore farà raggiungere al segnale la consistenza richiesta per l’emissione sonora.

I tre comportamenti (intonazione, timbro, ampiezza) sono facilmente definibili con valori di default, cioè staticamente previsti all’inizio dell’elaborazione e – nel lontano mondo degli Anni 50 – sono controllabili con fatica intervenendo manualmente sui parametri di pannello (o di generazione) che ne governano la vita elettronica; ma la grossa intuizione di Bob Moog – il Control Voltage – permette di automatizzare i valori di parametro inviando a punti precisi del circuito (appositamente predisposti) tensioni elettriche generate per far variare il valore di parametro in base al valore di tensione stesso. In questo modo, è storia quotidiana nel funzionamento di tutti i sintetizzatori dal 1970 in poi, non è più necessario essere fisicamente di fronte ad un pannello comandi per poter variare le regolazioni di controllo: basta inviare ai circuiti sul pannello comandi opportune tensioni di controllo che saranno abilitate al controllo a distanza.

Nel sintetizzatore analogico, le tensioni di controllo sono prodotte con circuiti di comprovata – o comprovabile, a seconda dei produttori, affidabilità: l’intonazione è messa sotto il controllo di una tastiera simile a quella del pianoforte (eccellente periferica di controllo per impieghi tradizionalmente melodici e non solo…), il filtro e l’amplificatore possono essere aperti e articolati con appositi generatori d’inviluppo che permettono la progettazione delle articolazioni e degli andamenti di timbro e ampiezza richiesti. Può sembrare complesso (lo era, per la generazione dei musicisti Anni 60 e 70…), ma oggi è divenuta una procedura standard nell’interazione con lo strumento elettronico.

 

Diverse forme per lo strumento elettronico

Un sintetizzatore dei primi Anni 60, pur essendo pressochè inevitabilmente analogico, poteva essere concepito con diversi gradi di complessità/libertà operativa, grosso modo attinenti alle strutture di tipo:

  • modulare, strumenti interamente costituiti da tanti circuiti analogici indipendenti, alloggiati in apposite strutture definite “moduli” che – rispettando precisi requisiti elettrici e meccanici – erano alloggiati all’interno di appositi contenitori (i cabinet) nei/dai quali ricevevano alimentazione elettrica; le interconnessioni tra circuito e circuito – la “programmazione” dello strumento – erano realizzate con numerosi cavi audio (i patch cords), rendendo complesso, difficilmente ripetibile e fondamentalmente poco stabile il risultato finale;
  • semi modulare; comparsi in un momento commerciale successivo, quando già il mercato si era dimostrato ricettivo nei confronti delle strutture modulari, i sistemi semi modulari prevedevano almeno una connessione interna di partenza che garantiva, per i circuiti più comuni e i compiti più semplici, la certezza del funzionamento a prescindere dall’esperienza del musicista; in aggiunta, grazie alla normalizzazione delle connessioni di pannello, era possibile modificare la struttura (ri)collegando in maniera diversa (con i consueti patch cords) punti del circuito per alterarne a proprio vantaggio il funzionamento; il sintetizzatore ARP 2600 è un eccellente esempio di sintetizzatore semi modulare, appositamente concepito per facilitare l’impiego tanto negli utilizzi dal vivo quanto, si badi bene, in ambito didattico;
  • integrato, un sintetizzatore analogico integrato – il nostro Minimoog Model D, ad esempio – era concepito da zero per lavorare in un certo modo, con un determinato corredo di circuiti interni quantitativamente non modificabili dall’utente e neppure alterabili nella loro connessione interna; a fronte di un’oggettiva limitazione operativa (sulle macchine integrate, semplicemente, non si può fare quello che il progettista ha deliberatamente tralasciato), apparecchiature di questo tipo risulta(va)no le più facili ed immediate da utilizzare. Particolare non da poco.

Il Minimoog Model D è un monofonico analogico a struttura integrata, che con il numero relativamente contenuto di controlli di pannello, permetteva un veloce impiego tanto in condizioni di studio, quanto di esibizioni dal vivo.

Bene, siamo pronti per affrontare la marcia di avvicinamento all’oggetto…

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Comments (6)

  • Antonio Antetomaso

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    Articolo interessantissimo!! Attendo con la bava le altre puntate. Qualche anticipazione sul framework di modellazione?
    Ovviamente la domanda è provocatoria…io il G2 non ce l’ho…;)

    Reply

    • Enrico Cosimi

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      pensavo a una cosa high level su NMG2 e una low level su Reaktor 5…

      Reply

      • Antonio Antetomaso

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        Questo è quello che volevo sentire….:-D
        Grazie mille, non vedo l’ora.
        Naturalmente tifo Reaktor.

        Reply

          • synthy

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            appunto è giovedì, figurati se riesco a fare reply correttamente…

            Reply

  • synthy

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    cioè dobbiamo scalà ‘na montagna pè salire sull’astra? ma almeno è diesel?

    vabbuò è giovedì e sono stufo, però che bello risentire le cose in altro modo, almeno si impara a ragionare elasticamente

    Reply

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